biblioteca civica di cologno monzese

Cari lettori, parliamone...

Condannati ai lettori forzati

(Claudio Di Benedetto. Cologno Monzese, 21 novembre 1997)

 

Umberto Eco avrebbe scritto da qualche parte che "un titolo deve confondere le idee, non ordinarle". Il titolo di questo mio intervento si pone forse subdolamente a mezza strada, proponendosi di rivolgere a tutti noi un invito ad abbandonarci al gioco delle possibili identificazioni fra noi, lettori, e un qualunque concetto di schiavitù che possa legare alla lettura (se mai ne esiste uno). Ma, innanzitutto, permettetemi di ringraziare pubblicamente gli organizzatori per l’invito rivoltomi, soprattutto perché mi offrono il modo e l’occasione di parlare sfacciatamente di un argomento che mi sta molto a cuore: me stesso (a questo punto, immagino di dovere solo alla cortesia e al garbo di chi mi ascolta se non si è ancora fatto il vuoto nelle file del pubblico). Infatti, l’Io lettore può ogni tanto perdere la connotazione di autore, editore, bibliotecario, cultore, esperto, professionista della lettura e suoi dintorni, sganciandosi per una volta dal rigore scientifico che il tema merita, per abbandonarsi al rischio forse narcisistico di parlare del Sé lettore.

Torno al titolo della mia relazione: ammettiamo pure che possa trarre in inganno. Desidero sottolineare subito che da parte mia non ho dubbi o esitazioni di sorta: io non potrei vivere senza leggere e, se leggere fosse un rischio, accetterei quel rischio con piena consapevolezza. Tuttavia mi pongo l’interrogativo se si possa correre il rischio di leggere senza vivere. Uno studente di una scuola superiore di Perugia, vittima fra altre designate di un progetto di analisi chiamato Lettura come diritto, del quale sono stato complice, pone a un certo punto la seguente domanda a una delle "analiste": "Ma lei, fra una storia d’amore letta e una storia d’amore vissuta, quale preferisce?"

 

A questa domanda, traducibile in tutte le lingue note e anche in quelle ignote, credo che tutti daremmo all’unisono una risposta corale: "Fra leggere e vivere una storia d’amore, preferiremmo, senza esitazione alcuna, Vivere con la V maiuscola una storia d’Amore con la A maiuscola!" Eppure, se i binomi finzione-realtà, lettura-vita fossero così chiaramente separabili credo che non avremmo assistito da almeno cinque migliaia di anni allo straordinario fiorire, costante e sempre più ricco, della letteratura in tutte le sue forme (narrativa, poetica, drammatica etc.) e non ci saremmo emozionati da cento anni a questa parte davanti a quella forma straordinaria di narrazione ("uguale ma diversa", per dirla con Nanni Moretti) che è il cinema. E, dunque, la realtà continua a contrapporsi alla fantasia, l’immaginato (o l’immaginabile) continua, forse per nostra autodifesa, a essere spesso più gratificante del vissuto (o del vivibile). Oggi evocherò due esempi cinematografici, un esempio notissimo in letteratura e un molto più modesto episodio autobiografico che spero rendano evidenti in modo provocatorio i limiti e i rischi della lettura. Se ce ne sono.

Cominciamo innanzitutto con l’osservare due esiti opposti della pratica della lettura, se non dell’iniziazione alla lettura stessa. Come premesso utilizzerò due citazioni cinematografiche (anche come omaggio a questo grande sogno ad occhi aperti, anzi spalancati, che è il cinema):

 

Camillo chiede a Orlando che cosa sta scrivendo:

Orlando Poesie

Camillo Voi siete uno intelligente? Come persona, voglio dire, siete uno intelligente?

Orlando Intelligente? Che significa intelligente?

Camillo Cioè... ci sta gente intelligente e gente ignorante, no?! Allora sto dicendo, voi pecché ho visto che leggete, scrivete, fate, allora è ... mica è un’offesa. Avete capito la domanda?

Orlando Si, certo che ho capito. So scrivere, leggere. Ma bastasse saper leggere e scrivere per essere intelligenti!

Camillo Io pure so leggere, eh! cioè leggere... insomma quasi, m’arrangio, diciamo; non è che so’ proprio bravo. Io non leggo mai, non leggo libri, cose... pecché che comincio a leggere mo’ che so’ grande? che i libri so’ milioni, milioni, non li raggiungo mai, capito? pecché io so’ uno a leggere, là so’ milioni che scrivono, e io uno mentre ne leggo uno... ma che m’emporta a me?

 

In questo primo caso, la lettura non è una pratica, ma una tecnica acquisita (l’arte messa da parte, per ricorrere a un noto detto); possiamo così essere portati a escludere che Camillo possa correre il rischio di imbattersi in qualche effetto patologico derivato dalla familiarità con i libri. Potremmo addirittura inventarci qui, seduta stante, un enunciato: "Nessun interesse, uguale nessun rischio". Ma mi sembra che, da questo punto di vista sia messo peggio, molto peggio il personaggio di un altro celebre film. Ascoltiamo questo altro dialogo:

 

Tenente Montini Farina, ma sei sposato?

Attendente Farina No

T.M. La fidanzata ce l’hai?

A.F. No

T.M. Vabbè, ci sarà qualcuno che t’aspetta a casa

A.F. I miei sono morti quando ero piccolo. Non li ho mai conosciuti.

T.M. E’ bello qua, eh?

A.F. Mmm... insomma...

T.M. Bhè, sai, questo può sembrare anche un posto arido, da pecorai. Però, duemilacinquecento anni fa, prima di Roma, c’era una volta una civiltà bellissima: c’erano poeti, filosofi, guerrieri, divinità. Tutti noi discendiamo da qui, in qualche modo. Anche tu, se vuoi cercare delle origini, qui le puoi trovare. Capito?... Ti piacciono le poesie?

A.F. Dipende

T.M. Queste le hanno scritte sette secoli prima di Cristo... Sai leggere?

A.F. In greco no

T.M. C’è la traduzione accanto

E nella scena successiva Farina, nel buio della camerata improvvisata, legge appassionatamente, mentre gli altri dormono o scrivono a casa...

 

Come abbiamo sentito, l’attendente Farina è invitato dal Tenente Montini a guardare la realtà che lo circonda, non con gli occhi oggettivi del contemporaneo, ma con quelli filtrati della memoria collettiva di una civiltà fiorente e dalle espressioni letterarie, soprattutto poetiche, ricchissime, arrivando a un vero e proprio elogio del DNA! E non c’è dubbio che l’attendente rimane contagiato; anzi, chi ha visto il film ricorda certamente come Farina riesca a conquistare la prostituta Vassilissa grazie anche alla citazione delle poesie d’amore lette (e imparate a memoria) nel libro che gli ha regalato o prestato il tenente Montini.

Sono sicuro che fra di noi i Farina superino i Camillo. Si tratta di vedere se siamo nei limiti ragionevoli o ai livelli di guardia che spero emergano dagli esempi successivi.

 

E’ noto anche ai sassi che il lettore patologico ha un posto d’onore in letteratura; addirittura, c’è un vocabolo, anche questo tradotto o traducibile in tutte le lingue, che indica l’esasperazione psicologica che sfocia nell’incapacità di vivere la vita reale, per eccesso di confronto con gli aspetti libreschi della vita stessa. Il termine ben noto è bovarismo, derivato dal personaggio di Emma, eroina del celeberrimo Madame Bovary di Gustave Flaubert. Non è questa la sede per riassumere la trama di un romanzo straordinario, né per farne un’analisi critica e psicologica. Mi interessa soffermarmi sulla voce Emma Bovary, tratta dal Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi, che cito quasi integralmente: "Una delle più grandi creazioni della letteratura moderna, e presto divenuta tipica. La sua vicenda nella Signora Bovary (v.) di Gustave Flaubert - la storia di una piccola adultera di provincia, che pel disordine causato dalla sua condotta è tratta ad avvelenarsi - s’allarga, si amplifica, diviene la storia dell’anima umana travolta nella ricerca del sogno, dell’ideale cui non può adeguarsi la realtà. Come don Chisciotte (v.), Emma Bovary, esaltatasi nelle letture romanzesche, vuol vivere il suo sogno, ma non può vincere la propria realtà, e la tentata realizzazione dell’ideale si riduce al volgare adulterio, con le conseguenze tragicamente comuni. Il suo fallimento, però, è osservato e narrato da un’anima fraterna, che sente la bellezza del male, mentre lo condanna. ‘La signora Bovary sono io’ diceva infatti Flaubert. Su di lei Jules Gaultier à potuto creare la teoria del ‘bovarismo’, che è la tendenza, l’attitudine a concepirsi e a concepire le cose diverse da quelle che sono. Istinto profondo, legge essenziale del progresso: ma in creature prive di ogni personalità può condurre alla misera tragedia di Emma [ ...] ". Astenendoci da ogni commento sulla apertura mentale e la gamma di comportamenti ammessi dalla morale dell’estensore di questa voce, ne traiamo le connotazioni proprie del concetto di bovarismo, tenendoci tutti in allarme, almeno quelli fra noi che si considerino privi di ogni personalità.

In realtà Daniel Pennac scrive di Emma: "non era solo un’idiota rovinata ‘dalla polvere dei vecchi gabinetti di lettura’ ma un fascio di energia fenomenale" Vale la pena, a questo punto, integrare con alcune frasi tratte dalla stessa Madame Bovary:

 

"Prima di sposarsi, Emma aveva creduto di provare dell’amore; ma poiché la felicità che sarebbe dovuta scaturire da questo amore non era arrivata, pensava di essersi sbagliata. Ed Emma cercava di capire cosa si intendesse nella vita con le parole felicità, passione, ebbrezza, parole che nei libri le erano apparse tanto belle".

e ancora

"Per sei mesi, a quindici anni, Emma si corruppe alla polvere dei vecchi gabinetti di lettura [ v. Pennac] ...Avrebbe voluto vivere in qualche vecchio maniero, come quelle castellane dal lungo corsetto, che coi gomiti appoggiati alla pietra e il mento sulle mani, guardavano avanzare al galoppo dal fondo della campagna un cavaliere dalla piuma bianca su un cavallo nero".

 

Come vediamo, diventare "un idiota" è uno dei possibili esiti dell’eccesso di lettura, vi è anzi una sorta di credenza popolare che la lettura, come altre pulsioni che non nomino, intacchino il cervello e altre parti anatomiche e funzioni vitali. Il tutto riassumibile nella frase "Certe volte sembra proprio che gli manchi una rotella. Sarà che legge troppi libri". Ma anche senza liquidare così il rapporto vita-lettura, né volendo propendere per la teoria secondo la quale leggere fa male, è doveroso citare la testimonianza di un’altra signora, reale stavolta e molto diversa dalla signora Bovary, forse a lei addirittura antitetica: "La mia conoscenza della vita era stata soprattutto letteraria. Non c’è da meravigliarsi che in seguito, quando entrai nella vita, a volte ci fossero ‘scene’ che mi ricordavano le scene dei romanzi e non me che vivevo la mia vita". A questo proposito sarebbe bene citare quel critico (se mi ricordassi chi è), che dice di uno straordinario poeta francese: "Baudelaire non guarda l’albero, ma guarda se stesso che guarda l’albero".

 

Riconosco che un dubbio mi tormenta: siamo tutti, almeno in parte e senza offesa per nessuno, delle Bovary, delle Anaïs Nin, dei Baudelaire? Viviamo tutti il quotidiano contrasto fra l’intempestiva scolatura della pasta e il ritrovamento sulla spiaggia del corpo di Steerforth o dell’orma di Venerdì? Non ho una risposta che valga per tutti, ma voglio qui confessare un episodio che mi proietta senza appello fra gli [auto]condannati ai lettori forzati. Mi trovavo a Parigi una domenica pomeriggio, appena giunto da Firenze e in attesa di una riunione che avrei avuto la mattina successiva. Premetto che conosco piuttosto bene la capitale francese e che ho avuto la ventura di farci, negli ultimi venticinque anni, soggiorni più o meni frequenti e più o meno lunghi. Ebbene, ero nel centro di Parigi, fra l’Opéra Garnier e il Palais Royal e il Louvre, dunque nel cuore della Parigi più Parigi. Era un pomeriggio luminoso e mite di fine marzo. Sarebbe stato normale e sano che io ne approfittassi per godermi in assoluta libertà l’aria, quasi familiare, di un luogo molto amato, in cui è comunque piacevole scoprire cose nuove o rivedere quelle che già si conoscono. In qualche modo Parigi era mia ed io suo... Ma qui interviene, grottesco e inquietante, lo spettro del dubbio: cosa ci facevo io, in quel pomeriggio sopra descritto, disteso comodamente nella mia camera d’albergo di Rue Molière (primo arrondissement), sprofondato a leggere beato, anzi a rileggere forse per la quarta volta, il Bel-ami di Guy de Maupassant? Bel-ami, capite? non un qualsiasi altro libro (la cui lettura sarebbe stata comunque rinviabile) ma Bel-ami, uno straordinario romanzo ambientato nella Parigi del Secondo impero, fra quei palazzi e quei boulevard che mi circondavano davvero, nella realtà non soltanto nella finzione cartacea, mentre io mi emozionavo nel leggere stampati sulle pagine del mio libro i nomi di strade che avrei potuto realmente percorrere da lì a tre minuti e leggerne i nomi sulle loro vere targhe a caratteri bianchi sullo sfondo di smalto blu, poste agli angoli. Ripenso a questo episodio, lo affido a voi in modo quasi impudico, e mi lascio cogliere da un altro titolo, di Milan Kundera stavolta, parafrasandolo in interrogazione: ma è dunque possibile che La vita sia [ sempre] altrove?

 

Qualcuno ha scritto "La gente dice che ciò che conta è vivere, ma io preferisco leggere" (tale Logan Pearsall Smith). Ma Hermann Hesse, penna molto autorevole e tuttora assai influente sulle giovani generazioni, ha scritto molto più drammaticamente: " Oso affermare che dappertutto si legge troppo, e che questo gran leggere non fa affatto onore, ma bensì torto, alla letteratura. I libri non esistono per condizionare più che mai gli uomini già condizionati, e meno ancora per fornire a uomini incapaci di vivere un mezzuccio che assicuri loro una parvenza e un surrogato di vita. Al contrario, i libri hanno valore soltanto se guidano alla vita, se sanno servirla e giovarle, ed è sprecata ogni ora di lettura dalla quale non scaturisca per il lettore una scintilla d’energia, un senso di ringiovanimento, un alito di nuova freschezza".

Lascio a ciascuno di noi una propria, personale idea al riguardo.


    Biblioteca Civica Cologno Monzese

pagina a cura di Claudio Di Benedetto
redatta il 02/01/1998

 ultima revisione
09/09/2002

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