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Cari lettori, parliamone...

 

L'ultimo viaggio seguito da "Lettera di un lettore felice"
Di Nuria Amat
traduzione di Elena Liverani

 

 

 

 

 

L'ultimo viaggio

In questo libro di poesie di Laura Carvan, che raccoglie testi scritti durante gli ultimi mesi della sua vita e la cui versione definitiva appare come lascito postumo, si trova la seguente poesia :

Appari nell'ombra e le ceneri
con l'anima decapitata
Vai via dal mattatoio! Scorre
odore di sangue e di penna senza smanie
con cui scrivere la lotta, la fame la speranza.

 

L'aria uccide lì
dove vivono le lettere culturali
e i bambini del limbo circolano nel fango
sembrano topi sorridenti della città immolata

 

Metafora dell'Europa schiacciata
dalle lingue infette dei pioppi
non arrenderti, mangia sputacchi, perduta
come una puttana accattona

 

Quando tornerai Sarajevo a sollevarti
dai libri fantasmatici
ricordati della Bestia.

 

Ricostruisci le pene e le lacrime
e il silenzio degli scrittori
impavidi con i loro occhiali antiproiettili

 

Così come le scimmie nelle loro gabbie
e la macchina fotografica con zoom
codarda e libidinosa
sesso da ambulatorio che nessuno tocca

 

Non hai visto il coro del mattatoio?
Teste da giostre domenicali i bambolotti
nel mirino del traditore ammaestrato
pum, la morte, il sangue, le viscere dei morti
nella fontana, lo stadio, il cimitero
e la piazza del mercato
dove si vende pace
alla morte
nella pianura aperta
senza proiettili, senza parole.

 

Questo testo, il cui titolo dà il nome alla raccolta Venti ragioni per essere scrittrice e una per smettere di esserlo, è l'ultimo della serie e fu scritto nella città di Sarajevo durante due insonni e lunghe notti. Un ulteriore dato, se si vuole più significativo, aiuterà a comprendere meglio il senso del testo e in particolare la decisione che spinse questa giovane poetessa al suicidio. La data che appare sul margine destro del foglio manoscritto corrisponde alla notte del 5 febbraio 1994. Domenica fatidica in cui ebbe luogo l'esplosione delle granate serbe nel mercato di Sarajevo che provocò sessantacinque morti e più di cento feriti.

Laura Carvan era arrivata a Sarajevo agli inizi dell'ottobre 1993. La sua laurea in giornalismo al debutto le permise di unirsi a un gruppo di reporter senza frontiere, di volare a Parigi e da lì di saltare a Sarajevo.

Ancora non si sa se fu una qualche ragione esplicita (oltre alla guerra stessa) a motivarla a prendere questa decisione rischiosa. Non apparteneva a nessuna squadra di giornalisti. Non era agli ordini di nessuno. Inoltre, l'aspetto di Laura Carvan, lo posso assicurare, era l'opposto di quello di un soldato o di un medico volontario. Secondo alcuni suoi compagni di viaggio, Laura Carvan non poteva continuare ad assistere in modo passivo a questa tragedia. Sembrava avere una necessità pressante di prendervi parte. La cosa più sorprendente è che, salvo il quaderno di poesie e una serie di lettere disseminate nello zaino, durante tutta la sua permanenza nei Balcani, Laura Carvan, che si sappia, non scrisse una sola riga per nessun giornale. Diffidava della stampa, della televisione e del mondo intero. Stando a quanto mi confessò un testimone, un giornalista bosniaco che conobbe Laura durante una conversazione all'hotel Europa, era disposta a scrivere solamente per un giornale come Oslobodjenje. Ma per farlo era imprescindibile conoscere la lingua serbo-croata. Anche se la Carvan si difendeva già piuttosto bene in quella lingua, non la dominava tanto da poterla scrivere. "Inoltre - proseguì il giornalista bosniaco - mi disse che non serviva a nulla sforzarsi di parlare una o un'altra lingua quando le bestie da là in alto conoscono solo il linguaggio della mitraglia e del mortaio." "Qui, non si consola più con le parole", mi avvertì.

Del soggiorno dell'autrice nell'assedio di Sarajevo si conoscono episodi sparsi. Che era stata a Mostar e a Srebrenica, che si era offerta come assistente volontaria a Dretel, il terribile campo di concentramento di civili musulmani in Erzegovina, che aveva avuto un'avventura con un fotografo tedesco, e poco più. La Carvan condivideva una stanza dell'Holiday Inn con una giornalista svedese. Quella stanza fredda, con i vetri delle finestre rotti e coperti da pezzi di giornale, dava sul viale dei cecchini e offriva della città di Sarajevo una visione raccapricciante da disastro atomico. Ma Laura preferiva quella camera sconquassata ai piani alti a quelle più sicure e meno fredde dei piani inferiori. Lì scrisse i primi versi della poesia:

Appari nell'ombra e le ceneri
con l'anima decapitata

  Il pomeriggio dell'eccidio al mercato, Laura Carvan si unì a due fotografi che conoscevo e aiutò a deporre i cadaveri nei camion e a soccorrere i feriti che erano sparsi al suolo come capi di bestiame percossi. Laura Carvan commentò allora che quello spettacolo di viscere umane e colli scarnificati in un mercato dove non si vendevano nemmeno alimentari era il colmo della desolazione e della barbarie. Fu sul tardo pomeriggio di quel giorno che ebbi l'opportunità di conoscere Laura Carvan. Fu la notte in cui i mezzi di comunicazione avevano diffuso ampiamente in tutto il mondo la notizia della tragedia del mercato di Sarajevo e già era nota la risposta furiosa degli statunitensi, che lasciava presagire una sorta di tregua nella città assediata. E quindi io e la Carvan potemmo passeggiare un po' per la città vecchia. Riuscimmo a trovare un tè caldo all'Europa. All'improvviso mi disse: "Fa attenzione. Guarda questi volti e dimmi se non ho ragione. Gli unici poeti di questa fine secolo stanno qui dentro. (Si stava riferendo ai quasi trecentomila abitanti che avevano resistito all'assedio serbo). Il resto - concluse - tutti noi altri, non siamo che guardoni ciarlatani."

Conseguenza di questa conversazione furono i seguenti versi:

odore di sangue e di penna senza smanie
con cui scrivere la lotta, la fame, la speranza

 

Sul far della notte mi accompagnò al luogo in cui pochi giorni prima un obice si era portato via la vita di alcuni bambini che giocavano alla guerra per le strade di Sarajevo. In quel luogo, con l'ausilio di corde e assi, avevano improvvisato un piccolo monumento commemorativo del massacro. Ai piedi, due squallidi topi sembravano sconcertati dal silenzio delle bombe. Sono convinta che da quella passeggiata sia scaturita la seconda strofa:

L'aria uccide lì
dove vivono le lettere culturali
e i bambini del limbo circolano nel fango
sembrano topi sorridenti della città immolata.

 

Poco dopo Laura Carvan mi confessò che l'unica cosa di cui sentiva la mancanza in quella città assediata erano i libri. Nello zaino aveva un'edizione economica francese di Guerra e pace, dello scrittore russo Lev Tolstòj. Disse che quel libro la accompagnava. Dall'adolescenza non lo aveva più riletto, ma le ricordava il pianto e ciò la riconfortava. Anche alcuni giornalisti e fotografi piangevano. Così si salvavano dalla miseria dell'Europa. Poi aggiunse che sentiva un affetto particolare per il grande romanziere russo. Disse proprio che fu il primo rifugiato di questo secolo triste, un mistico incompetente. Vecchio e moribondo riuscì a scappare da casa sua, dove si sentiva mancare l'aria, per imboccare per brevi ore il sentiero del vagabondo. La nostra conversazione si spostò allora sulla Russia e i boschi di betulle a sud di Mosca, dove Tolstòj aveva la sua casa e la sua tomba. Raccontai a Laura di una mia visita al museo poi allestito dell'antica magione Tolstòj, di un grande viale bordeggiato da pioppi, la "prospekt" che porta alla casa dell'autore di Anna Karénina. Parlammo di Anna Karenina e mi presi la libertà di dirle che lei, Laura, mi ricordava la grande eroina russa. Credo che apprezzò. "E pensare che a quei tempi si arrivò a confondere Anna Karenina con una prostituta" sottolineò. Allora mi parlò della sua passione per i poeti russi (Akhmàtova, Mandelstam, Zvetaeja, Brodski...), i primi scrittori autenticamente europei di questo secolo, affermò, e forse gli ultimi, aggiunse tristemente. Immediatamente dopo, rivisitammo insieme alcune delle biografie di queste vittime letterarie che furono denunciate da colleghi altrettanto scrittori o, come diceva lei, lingue infette. Le strofe che seguono hanno un chiaro riferimento alla nostra conversazione:

Metafora dell'Europa schiacciata

dalle lingue infette dei pioppi
non arrenderti, mangia sputacchi , perduta
come una puttana accattona

 

Un altro testimone mi confermò con sicurezza che Laura Carvan era solita chiedere libri ad amici e conoscenti. E che questo bisogno di libri era evidente in molti cittadini di Sarajevo. I libri erano utili e necessari per combattere contro quel dolore xenofobo. Secondo il citato testimone questo era anche un modo di esteriorizzare la sofferenza dei bosniaci per l'incendio della loro grande biblioteca.

 

Quando tornerai Sarajevo a sollevarti
dai libri fantasmatici
ricordati della Bestia.
Ricostruisci le pene e le lacrime
e il silenzio degli scrittori
impavidi con i loro occhiali antiproiettili

 

Riconosco che quest'ultima strofa era dedicata in particolare a me, come anche le successive:

  • Così come le scimmie nelle loro gabbie
  • e la macchina fotografica con zoom
    codarda e libidinosa
    sesso da ambulatorio che nessuno tocca

    Laura Carvan rimproverava al mondo la passività di fronte al massacro. Disse qualcosa del tipo "questa non è una guerra fotografica" e che loro, i cittadini di Sarajevo, non erano quegli animali da giardino zoologico che le macchine fotografiche cercavano di mostrare al mondo. Aggiunse che gli scrittori dovevano venire e vedere. E poi, denunciare, o tacere per sempre.

     

    Incontrai di nuovo Laura Carvan il giorno successivo al nostro incontro. Viste la tragedia da poco consumatasi nel mercato di Sarajevo e la risposta di condanna che aveva provocato nell'opinione pubblica internazionale, si intravedeva la fine dell'assedio e la città sembrava respirare tranquilla. Proposi a Laura di fare un'altra passeggiata. Volevo che mi mostrasse lo stadio di calcio ora convertito in cimitero. E perché non il coro del mattatoio? disse con tono ironico. Dall'espressione del suo volto compresi immediatamente che si riferiva a quanto era successo al mercato. Era stanca e non aveva voglia di camminare. Aggiunse che non aveva chiuso occhio tutta la notte. Accettò l'invito a prendere un caffelatte nel bar di un hotel verso il quale ci dirigemmo subito. Una volta lì, ci sedemmo insieme a due reporter belgi o svizzeri, non ricordo con precisione. Il più giovane salutò Laura in francese e iniziò a riassumerle il contenuto della conversazione in cui era impegnato con il compagno. Disse più o meno che a partire da quel momento Sarajevo sarebbe diventava la giostra della guerra nella quale gli abitanti di Sarajevo sarebbero stati quelle figurine di legno che nel tiro a segno girano e girano, imperterrite, ai loro posti collocati nel mirino dei fascisti serbi. Lei censurò questo paragone e rispose, mi sembra di ricordare, che nel loro lavoro di reporter per la stampa sarebbero dovuti stare più vicini alla verità che non allo spettacolo morboso di questa e di altre guerre.

    I versi finali della poesia riportano con precisione millimetrica la conversazione al bar dell'albergo.

    Non hai visto il coro del mattatoio?
    Teste da giostre domenicali i bambolotti
    nel mirino del traditore ammaestrato
    pum, la morte, il sangue, le viscere dei morti
    nella fontana, lo stadio, il cimitero
    e la piazza del mercato
    dove si vende pace
    alla morte
    nella pianura aperta
    senza proiettili, senza parole.

    I riferimenti alla fontana, allo stadio, al cimitero e alla piazza del mercato corrispondono agli assassini di massa perpetrati dai serbi contro la popolazione civile di Sarajevo e che ebbero luogo per strada (26 marzo 1992, sedici morti) allo stadio (1 giugno 1992, quindici morti) al cimitero (12 giugno 92, otto morti) e nella piazza del mercato (5 febbraio 1994, sessantacinque morti). Verso la fine della nostra conversazione di quella mattina al bar dell'hotel Holiday Inn, Laura Carvan mi confessò di scrivere poesie. Immediatamente le rivelai il mio desiderio di leggere qualcosa di suo. Mi rispose che dipendeva dalla fortuna o meno di trovare in Spagna il suo unico libro pubblicato, un libro di poesie in un'edizione di seconda fila e sicuramente perduta. Non c'erano più motivi per scrivere, puntualizzò, e men che meno per scrivere poesie. Cercai di convincerla del contrario. Del fatto che proprio in quel momento si aveva maggior bisogno di poeti. Ma seppi tacere a tempo.

    Non ci sono testimoni che possano raccontare come Laura Carvan passò il pomeriggio che seguì alla nostra conversazione mattutina. All'imbrunire nevicava su Sarajevo. A notte inoltrata, due vicini della via che dà accesso alla Neretva sull'ultimo ponte, assicurarono di aver sentito un rumore di una massa che cadeva in acqua. Il mattino successivo vennero a cercarmi nella camera dove alloggiavo. Portavano la sacca sportiva di Laura Carvan. Due caschi blu avevano trovato il suo corpo vicino alla riva innevata della Neretva.

     

     

    Lettera di un lettore felice 

    Egregio Direttore,

    Mi è giunta notizia della pubblicazione delle poesie di Laura Carvan, editate per i tipi della sua rivista, come anche del testo biografico che li precede. L'autrice di tale testo si interroga a proposito delle cause del suicidio della poetessa Laura Carvan. A Sarajevo purtroppo sono molte le ragioni che giustificano oggi questa scelta ma, tuttavia, è logico cercare sempre una risposta ragionevole a questo gesto definitivo verso il quale i poeti si sentono particolarmente chiamati. Potrei offrirle un'argomentazione dettagliata sul perché i poeti, come anche i bambini, sono i primi a desiderare di sparire volontariamente da questa guerra. Se noi poeti siamo felici è solo ed esclusivamente perché sappiamo trovare una spiegazione a questo fenomeno macabro del quale siamo, e ci sentiamo, testimoni privilegiati. Ma mi limiterò semplicemente a esporre la mia versione a proposito dell'atto suicida della poetessa Laura Carvan.

    Laura Carvan faceva parte del nostro gruppo di Poeti Felici della città di Sarajevo. Eravamo amici, ci traducevano l'un l'altro i versi e parlavamo soprattutto di poesia. La mia amica non riuscì mai a capire come si potesse essere poeti e non vivere nell'assedio di Sarajevo. Apparteneva alla condizione del poeta rimanere vicino alla verità. E per Laura Carvan la nostra condizione di abitanti di Sarajevo violentati e umiliati era una delle poche verità ancora esistenti. Ma, chi è così coraggioso da voler stare vicino alla sofferenza, all'ingiustizia e alla morte? La poetessa Laura Carvan credeva che questo fosse un argomento plausibile grazie al quale comprendere l'estinzione dei poeti nel mondo. Tuttavia, nemmeno questa spiegazione la soddisfaceva completamente e a poco a poco, sopravvivendo qui, come diceva lei "vicino alla verità", giunse alla conclusione che la poesia era definitivamente morta. Il crimine generalizzato e i mezzi di comunicazione che lo sfruttavano perversamente avevano annientato la poesia, dato che, secondo lei, a causa loro si annunciavano e si bruciavano in un breve lasso di tempo eccidi e altre catastrofi violente. La guerra, per quei mezzi di comunicazione di massa, aveva luogo oggi e il giorno successivo aveva già smesso di essere un evento per continuare isolatamente a essere la stessa guerra, se possibile ancora più cruenta. Era loro la responsabilità di aver eliminato qualsiasi possibilità di inquietudine o di rinascita poetica. E per la poetessa Laura Carvan, un mondo che aveva esaurito ogni possibilità di spazio poetico cessava di avere senso.

    Ci sarà sicuramente chi non vorrà dar credito a queste parole. Immagino che sia difficile credere che, alle soglie di un nuovo secolo, ci siano ancora persone che si tolgono la vita per un motivo così ignoto e inconsistente come la sfortunata fine della poesia. Ma questa è la mia verità. E, con terribile sofferenza, questa era anche la verità della poetessa Laura Carvan.


        Biblioteca Civica Cologno Monzese

    pagina a cura di Nuria Amat     
    redatta il 02/01/1998

     ultima revisione
    09/09/2002

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